Livia Pirocchi Tonolli promotrice di centri di ricerca

A cura di Marina Manca CNR IRSA sede di Verbania

La nascita della limnologia in Sardegna

Il substrato culturale

Negli anni settanta, sulla scia del dibattito sul tema dell’eutrofizzazione delle acque, acceso dieci anni prima in ambito internazionale (e.g. Vollenweider 1969), la comunità scientifica nazionale faceva proprie le preoccupazioni per il crescere di questo fenomeno, che andava manifestandosi in maniera molto chiara sia nelle acque marine (Adriatico in particolare) sia in quelle dolci. Fenomeni quali lo sviluppo di dense fioriture algali, con il forte declino della trasparenza delle acque, lo sviluppo di miasmi dovuti alla produzione di acido solfidrico per la mancata ossigenazione delle acque profonde, in casi più estremi accompagnata da morie di pesci; il rilevamento di mucillagini in Adriatico, documentati con sempre maggiore frequenza in diversi siti del nostro paese, destavano infatti grande preoccupazione.

Le conoscenze prodotte attraverso indagini estensive condotte in Nord America erano state riassunte, tra le altre, nel testo “Eutrophication Causes, Consequences, Correctives” (The National Academies Press. Washington, DC), pubblicato nel 1969.

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Esso rappresentava una pietra miliare per lo studio e la comprensione del fenomeno dell’eutrofizzazione, indicando la via da seguire anche in vista del possibile recupero degli ambienti interessati da questo fenomeno. La conoscenza scientifica dell’eutrofizzazione aveva stimolato un grande sforzo di monitoraggio estensivo dei laghi del Nord America, esitando in una sintesi quantitativa basata su modelli matematico-statistici per la classificazione in senso trofico dei laghi. Questo lavoro era la base di ogni possibile strategia di rimedio delle condizioni nelle quali versavano le acque di mari, fiumi e laghi del Mondo e con esso, del nostro Paese. 

Fu questo il substrato a partire dal quale presero vita alcune iniziative scientifiche di grande rilevanza nel nostro paese. Il CNR giocò un ruolo di fondamentale importanza, facendosi promotore, attraverso il Comitato di Biologia e Medicina, di un Progetto Finalizzato “Ambiente”, all’interno del quale trovarono posto tutta una serie di sotto-progetti volti ad individuare le principali tematiche scientifiche necessarie per la studio e la caratterizzazione del nostro territorio. A rileggere anche solamente l’indice delle tematiche elencate nei volumi che il CNR produsse a conclusione dei lavori delle commissioni ad hoc istituite si rimane ancor oggi colpiti dalla loro lungimiranza e attualità. 

Perché, sebbene i cosiddetti “driver” alla base dei fenomeni che oggi osserviamo siano cambiati, resta inalterata la valenza dell’approccio alla base di detti progetti, squisitamente interdisciplinare, attento alle diverse componenti dell’ambiente e consapevole degli aspetti gestionali. Dietro, o meglio ancora alla base, della strategia espressa nei progetti finalizzati prima, e di quelli strategici poi del CNR, vi era la regia di un’equipe di personalità di grande valore nel panorama scientifico italiano ed internazionale, capaci di portare all’attenzione critica degli diversi membri del comitato le argomentazioni necessarie per una corretta progettazione degli studi e le conseguenti decisioni in ambito gestionale. L’intento dei Progetti Finalizzati del CNR era infatti quello di realizzare una sinergia tra le eccellenze del mondo della ricerca e il mondo della gestione delle risorse ambientali (un approccio che oggi definiremmo “ecosystem-sound”); una sinergia ancor oggi invocata e lungi dall’essere realizzata. Non era raro leggere articoli recanti la dicitura “Dalla ricerca alla gestione”, su report di convegni e su articoli scientifici recanti i risultati di gruppi di ricerca di altissimo livello. Il CNR era in grado di pianificare studi e di affidarli ad equipe di scienziati che venivano supportati per le loro attività da finanziamenti “ad hoc” di grande consistenza. Grande fu l’eco mediatico dei risultati delle attività dei diversi gruppi di ricerca che operarono nell’ambito del PF ambiente.

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Il Progetto di monitoraggio del Lago Maggiore

Il deterioramento della qualità delle acque dei laghi profondi subalpini, ed in particolar modo del Lugano e del Maggiore, insistenti in acque italiane e svizzere, portò alla nascita, su iniziativa della Commissione Internazionale per la Protezione delle Acque Italo-Svizzere (CIPAIS), di programmi di monitoraggio per lo studio delle condizioni delle loro acque. E’ grazie a tale iniziativa che il Lago Maggiore, secondo per dimensioni e profondità tra i laghi italiani, rappresenta uno degli esempi più significativi della valenza degli studi a lungo termine. La serie di dati sulle principali variabili ambientali necessarie per tracciare la sua evoluzione, infatti, si sviluppa senza soluzione di continuità fino al presente, lungo un arco di tempo di oltre quarant’anni.  La programmazione di questo monitoraggio ambientale pianificato e finanziato dalla CIPAIS era il frutto della lungimiranza scientifica della direttrice dell’Istituto Italiano di Idrobiologia, la Professoressa Livia Pirocchi Tonolli. Grazie al background scientifico della Tonolli, il programma, fin dalle sue origini, non si limitò ad includere alcune variabili necessarie per la caratterizzazione in senso trofico del lago ma fu progettato in modo tale da rappresentare ogni possibile elemento in grado di caratterizzarne l’evoluzione ambientale. Un esempio che ha pochi eguali in ambito nazionale ed internazionale. Laddove in generale ci si limitava allo studio dello specchio lacustre, il monitoraggio di questi ambienti prevedeva anche la caratterizzazione dei tributari. Laddove ci si limitava allo studio del fitoplancton e della fauna ittica, si prevedeva in essi anche lo studio della componente zooplanctonica, con un dettaglio tale da permettere di considerarne e tracciarne l’evoluzione fine delle sue diverse componenti. Lo studio del lago non si limitava alla superficie (come oggigiorno si tende a fare negli studi estensivi, ignorando l’importanza dei profili verticali come elemento di fondamentale importanza per lo sviluppo stagionale delle componenti biologiche) ma si investigavano anche le acque profonde, e l’evoluzione delle variabili fisiche e chimiche nell’intera colonna d’acqua, nella consapevolezza che quella fosse la base sulla quale si innesta lo sviluppo nel tempo e nello spazio delle comunità biologiche in essa insediate.

Tale approccio ecologico, ecosistemico, al monitoraggio del Lago Maggiore è certamente il risultato della forma mentis che permeava Livia Tonolli e l’ambiente scientifico che ella aveva frequentato nel corso della sua formazione e della successiva direzione dell’Istituto Italiano di idrobiologia (I.I.I.); una forma mentis che Livia portò in dote quando, durante la sua direzione, l’Istituto entrò a far parte del CNR.

L’ingresso dell’Istituto Italiano di Idrobiologia nel CNR

Livia Tonolli traghettò l’I.I.I. nel CNR con una precisa missione, quella di rappresentare una visione ecologica delle acque e di promuovere la ricerca in campo limnologico con quell’approccio internazionale che era stato alla base della fondazione dell’Istituto, nel 1938.

Esisteva già, nel CNR, un “Istituto di Ricerca sulle Acque” (IRSA), diretto dal Professor Roberto Passino. Dunque era già, da anni presente sul territorio nazionale un istituto, con base a Roma, e diramazioni in diverse zone della penisola, deputato al monitoraggio delle acque. L’approccio era, tuttavia, differente, principalmente basato sullo studio dei parametri chimici e dedicato alla quantificazione di eventuali inquinanti, ivi inclusi quelli organici. Non meno importante erano anche gli studi sugli impianti di depurazione. Con la pubblicazione dei “Quaderni”, l’IRSA documentava lo stato di salute delle acque attraverso alcune variabili individuate come significative per tracciarne le caratteristiche di base. 

L’approccio che l’I.I.I. apportava allo studio dei laghi era frutto della storia scientifica di questo istituto, della fitta trama di relazioni internazionali, dell’appartenenza ad una sorta di intellighenzia che in diversi contesti si adoperava per elaborare e caratterizzare i concetti basilari dell’ecologia. Livia Tonolli si era nutrita del clima internazionale che permeava l’Istituto negli anni in cui arrivavano a Pallanza studiosi da tutto il mondo, perché lì trovavano quel clima che rendeva fruttuoso il loro lavoro. Gli Edmondson (Tommy e Yvette, che Livia chiamava, sottolineandone la sintonia, TommYvette), R. Margalef, R. A. Vollenweider, C. R. Goldman e H.L. Golterman, M. Nakanishi, G.E. Hutchinson, M. S. Adams e molti altri. Ma anche, A. Buzzati Traverso, Luigi Luca Cavalli Sforza (questi ultimi accolti da Livia che aveva preso la reggenza dell’istituto quando Baldi era stato richiamato al fronte, e riparati all’istituto di Pallanza per sfuggire alle persecuzioni dei nazifascisti, non volendo sottoscrivere il manifesto della razza). 

Divenuta direttrice alla morte del marito Vittorio, Livia Pirocchi Tonolli seppe continuare la tradizione dell’Istituto quale centro di aggregazione di studiosi limnologi da tutto il mondo, e nel contempo, centro di supporto e accoglienza per studiosi di Paesi in via di sviluppo e/o poco aperti al mondo della ricerca occidentale. 

La promozione di un gruppo di ricerca limnologica in Sardegna

Livia seppe anche promuovere iniziative coraggiose, non scontate, anche quando poco comprese o viste con sufficienza dai suoi stessi collaboratori dell’Istituto. Una di queste iniziative fu l’organizzazione, presso l’Università degli studi di Sassari del “Convegno sull’eutrofizzazione dei bacini artificiali” (1977), nell’ambito del Progetto Finalizzato “Promozione della Qualità dell’ambiente” del CNR.

Livia Tonolli era professoressa di idrobiologia e piscicoltura a Milano; in quell’università aveva studiato ed era stata, lei come pure Edgardo Baldi, allieva di Rina Monti. La sua maestra aveva studiato a Pavia, ove aveva frequentato il gruppo di ricerca diretto da Camillo Golgi. A Pavia era venuta a contatto con gli studi sulla fauna lacustre cui si dedicava uno dei suoi professori, Pietro Pavesi, entrato in contatto fra gli altri, con Marco De Marchi (proprietario dell’omonima villa sede dell’Istituto), appassionato cultore dello studio di flora e fauna lacustri a Pallanza. Rina Monti, dopo alcuni tentativi, aveva ottenuto la cattedra universitaria proprio a Sassari, prima donna del Regno d’Italia a ricevere tale incarico. Le ragioni della mancata nomina presso altre università per le quali aveva concorso sono state ampiamente dibattute e sembra che sia stata la sua ferma fede Haeckeliana (riassunta nel motto “L’ontogenesi ricapitola la filogenesi”), ai tempi osteggiata dall’establishment universitario, a determinarla. Rigettata pare sia l’ipotesi di una presunta forma di discriminazione di genere, anche in quanto la Monti fu ben accolta e inserita nel cenacolo Golgiano. 

Giunta in Sardegna, la Monti aveva condotto studi su pozze temporanee, descrivendone flora e fauna. A lei, l’Università di Sassari, in anni recenti ha deciso di dedicare una targa, in ricordo della sua figura di prima donna cattedratica del Regno d’Italia e di studiosa dei laghi. L’approccio della Monti, oggi ritenuta personaggio di spicco e fondatrice della limnologia dei laghi alpini, era ancora molto legato alla tradizione faunistica e floristica e i suoi lavori, condotti a seguito del trasferimento all’Università di Milano, sono un punto di riferimento importante per lo studio di questi ambienti e delle loro condizioni originarie. Tuttavia, un accenno ad un approccio moderno, quasi di tipo ecosistemico, si ritrova nel suo studio sul Lago d’Orta, nel quale la Monti formula un’ipotesi molto chiara e interessante sulle cause della progressiva morte degli organismi lacustri a seguito del pesante inquinamento da rame cui il lago era sottoposto.

I bacini artificiali erano e sono la fonte primaria di acqua dolce in Sardegna: erano stati costruiti per sbarramento dei principali corsi d’acqua per garantire all’isola il necessario approvvigionamento di acqua, anche e soprattutto per il consumo umano. Una risorsa preziosa, in un’isola nella quale il clima mediterraneo confinava alla sola stagione invernale il necessario approvvigionamento di questo bene primario. Circondata dal mare, l’Isola sperimentava lunghi periodi di assenza di pioggia e penuria di acqua dolce e il prelievo dai bacini in stagioni aride determinava forti fluttuazioni del livello e con esse, problemi di qualità oltre che di quantità, di acqua dolce. Di questi problemi Livia Tonolli aveva consapevolezza, e riteneva necessario che nascesse in loco un gruppo capace di studiare questi ambienti con tutti i più moderni e scientificamente avanzati sistemi allora a disposizione. Così, la scelta di organizzare il Convegno fu anche l’occasione per portare sull’Isola tutti i più grandi nomi della ricerca internazionale. Varcarono il mare per giungere sull’isola studiosi del calibro di R. Margalef e di R. Vollenweider. Fu in quell’occasione che i pionieri della limnologia dei bacini artificiali della Sardegna ebbero modo di presentare i risultati dei loro primi studi, e di confrontarsi con gli altri partecipanti, scambiando opinioni e rendendo partecipi i congressisti delle problematiche peculiari di questi ambienti. L’IRSA si occupava già dei bacini artificiali del sud Italia e della Sicilia. Tonolli volle che la Sardegna fosse legata al suo Istituto. Forse anche in quanto, nel frattempo, a Sassari erano divenuti cattedratici due ricercatori di Pallanza, Alfredo Carollo prima e Luigi Barbanti poi. Barbanti in particolare, occupandosi dei fenomeni del mescolamento delle acque e della termica lacustre, possedeva il know-how per poter studiare gli aspetti legati al prelievo e al ricambio delle acque, cruciali per i bacini artificiali e la loro dinamica temporale. Forse furono entrambe le cose, da un lato la familiarità della Monti con Sassari e dall’altro la presenza di un ramo della ricerca di Pallanza presso la medesima università, a guidare Livia Tonolli nella scelta di fondare un gruppo di limnologia nella stessa. Certo è che l’esordio fu grandioso, efficace, di altissimo profilo, come era nello stile di questa direttrice. A dirigere il gruppo di ricerca nelle indagini, era un giovane ricercatore che a Pallanza si era formato: Nicola Sechi.

Professore Ordinario, già capo dipartimento e oggi professore a contratto, Nicola Sechi ha accettato di raccontare la nascita e gli sviluppi del gruppo di ricerca limnologica in Sardegna, rispondendo ad alcune domande. 

Quando e come conobbe l’Istituto di Pallanza? Che ruolo ebbe la direttrice dell’Istituto nella sua presa in consegna del gruppo di limnologia in Sardegna?

“Nel 1974. Tutto ebbe inizio con l’arrivo a Sassari di Luigi Barbanti, professore incaricato del corso di geografia. Arrivato in Sardegna, Barbanti notò la presenza nell’isola di numerosi laghi artificiali e, avendo in mente di trovare un tema di ricerca che potesse rappresentare un’emanazione di quanto portava avanti a Pallanza, manifestò l’idea di avviare indagini sui bacini lacustri artificiali alla Professoressa Tonolli (da qui in avanti anche “Signora Tonolli”, l’appellativo da lei stessa preferito). Barbanti era in ottimi rapporti con l’Istituto di Botanica dell’Università di Sassari ed i professori che ivi insegnavano: Mario Dolcher, che ne era il direttore, Bruno Corrias, che aveva un ruolo di primaria importanza nella gestione dell’Istituto e della parte finanziaria dello stesso, Franca Valsecchi, professoressa associata con la quale io collaboravo. Fu Luigi Barbanti a lanciare l’idea di avviare indagini sui bacini artificiali della Sardegna, con quell’approccio ecologico che caratterizzava gli studi in essere all’Istituto di Pallanza. A quei tempi l’ecologia era praticamente sconosciuta nell’ambiente accademico italiano: il primo corso di ecologia, infatti, comparve nelle università italiane nel 1978. A Sassari nel 1979. In quegli anni Livia Tonolli teneva a Milano un corso di idrobiologia e piscicoltura, nel quale dava un’impronta ecologica, sebbene il suo non fosse ufficialmente un corso di ecologia. Naturalmente, la nascita di un settore d’indagine dedicato ai laghi all’interno di un istituto di botanica richiedeva l’individuazione di una figura che potesse portare avanti questo nuovo settore. Io mi ero laureato nel 1973 e avevo iniziato a lavorare con Franca Valsecchi. Fu allora che mi proposero di occuparmi dei laghi artificiali, e per fare ciò dovevo andare a Pallanza“.

Chi, nello specifico, promosse la sua formazione prima, e la successiva presa in carico del gruppo di ricerca limnologica?

 “All’Istituto di Pallanza conobbi la professoressa Tonolli; io non sapevo chi fosse. Livia Tonolli mi disse che avrei dovuto lavorare con la Sig.ra Ines Origgi, tecnica incaricata di analizzare i campioni di fito- e zooplancton, e che avrei frequentato i vari laboratori, dei quali mi nominò i responsabili: Carlo Saraceni, Delio Ruggiu, Alcide Calderoni”. 

Quali figure incontrate all’Istituto di Pallanza lasciarono un segno nella sua crescita personale e scientifica?

 “Entrai subito in sintonia con Carlo Saraceni, una persona splendida. Delio era più riservato e con lui affrontavo le grandi questioni aperte del momento, anche in quanto lui aveva iniziato ad occuparsi di fitoplancton e produzione primaria. Per me era fondamentale acquisire le tecniche di analisi chimiche delle acque, perché al mio rientro in Università avrei dovuto metter in piedi un laboratorio di idrochimica per poter avviare le indagini sulle principali caratteristiche degli invasi sardi. Fu così che conobbi Alcide Calderoni, responsabile del settore, e il suo studente neolaureato, Rosario Mosello. In laboratorio di idrochimica lavoravano due tecnici molto esperti e capaci, Bruno Menzaghi, Gabriele Tartari e suo fratello Gianni, quest’ultimo studente presso la facoltà di Chimica dell’Università di Milano. Conobbi anche Masami Nakanishi, ospite in Istituto. Con lui appresi le tecniche di analisi della produzione primaria e il lavoro sul campo; da lui imparai il rigore analitico. 

A giorni alterni la professoressa Tonolli mi chiamava nel suo studio per sentire il resoconto del mio apprendistato. 

In uno di questi incontri io manifestai i miei dubbi riguardo alla determinazione tassonomica del fitoplancton; provenendo dal mondo della botanica, mi era familiare l’uso delle chiavi dicotomiche. In Istituto si usava la guida tedesca di Huber Pestalozzi, basata su ambienti differenti rispetto a quelli di aree mediterranee. Tonolli ben comprendeva questa problematica e mi aiutò a recuperare il materiale necessario per la classificazione del fitoplancton dei bacini artificiali della Sardegna.

Trascorso quasi un anno di apprendistato a Pallanza, la Tonolli mi disse che dovevo rientrare in Sardegna.  

Fu lei a reperire i fondi per avviare la prima indagine sui bacini artificiali, ed in particolar modo sul Lago Omodeo. In quel periodo In Italia, per classificare i laghi e le loro caratteristiche trofiche si utilizzava il modello OCDE, basato sui lavori di Vollenweider. La modellistica era stata applicata al Lago Maggiore e ai laghi profondi subalpini. L’intento era di estendere questo approccio a tutti i laghi italiani. La Tonolli aveva consapevolezza del grandissimo valore dei laghi artificiali, anche in quanto nel mondo la gente non beveva l’acqua dei laghi naturali ma quella dei bacini artificiali. Quindi riteneva opportuno e necessario che si studiasse il lago artificiale più importante cella Sardegna, vale a dire il Lago Omodeo”.  

Con le vostre indagini riusciste a dare una prima classificazione dei corpi d’acqua lacustri in Sardegna: furono i risultati conformi alla aspettative vostre e della direttrice?

“La Sardegna era stata scelta per questi studi anche in quanto vi era l’idea che fosse un’isola immacolata, priva di inquinanti, con un territorio ricco di foreste. Vero era che in essa vi fossero molti ovini, ma l’ipotesi di base era che fosse caratterizzata da ambienti incontaminati. La Signora, come la Tonolli veniva chiamata (ndr), vedendo i risultati dello studio sull’Omodeo che lei aveva provveduto a far finanziare – fosforo a 100 mg/L, bloom algali spaventosi, si domandò se non fosse, quello dell’Omodeo, una sorta di caso estremo, dovuto alla scelta casuale. A quel punto, poiché stava decollando il Programma del CNR “Promozione della qualità dell’ambiente”, la Tonolli decise che fosse necessario estendere le analisi a tutti i bacini artificiali della Sardegna. Attraverso una survey su 25 laghi, con prelievi inizialmente due volte l’anno, alla circolazione e alla stratificazione termica, e successivamente stagionali, quattro volte l’anno. Fummo supportati dai fondi del Progetto Finalizzato del CNR “Promozione della qualità dell’ambiente”. 

Quale supporto tecnico e logistico avevate?

“Il gruppo era formato in tutto da quattro persone, ivi incluso un bidello, il Signor Salvatore. Avevamo un pulmino, una vecchia multipla, sulla quale caricavamo la barca. Partivamo all’alba e facevamo poi le analisi del fosforo in giornata. Un esempio per tutti, quello dei laghi nella la zona di Cagliari, a Monte Pranu: impiegavamo tre ore per arrivare, due ore per campionare, tre ore per tornare e poi il tempo necessario per fare le analisi dei parametri idrochimici, in particolare di ossigeno e fosforo. Un lavoro spaventoso.

Quando avevo dei dubbi sui risultati o si presentava un problema c’era sempre la Tonolli. Io andavo a Pallanza almeno 4-5 volte l’anno per discutere con i ricercatori di Pallanza delle diverse problematiche che man mano incontravo: con Barbanti quelle di idrodinamica e fisica lacustre, con Calderoni e Mosello quelle di idrochimica, con Delio Ruggiu del fitoplancton. Lavoravo su due fronti: da una parte, coordinavo un enorme lavoro manuale in Sardegna, dall’altra, varcavo periodicamente il mare per andare a Pallanza a recuperare conoscenze e materiale bibliografico altrimenti non reperibile. Nel 1975-1976 fu completato lo studio preliminare sull’Omodeo, subito dopo il quale venne avviata la survey”. 

Che ruolo ebbe la partecipazione e l’organizzazione del Congresso di Sassari per il successivo percorso intrapreso da lei e dal suo gruppo?

“Gli studi nel loro complesso fecero emergere l’esistenza di un grosso problema di qualità delle acque dei laghi sardi e la Signora Tonolli riteneva che fosse necessario divulgare i risultati ottenuti. Fu questo il motivo per cui ritenne necessario organizzare il Primo convegno sull’eutrofizzazione proprio a Sassari, presso l’Università. Come era costume della Signora, il Convegno fu un evento di grandissimo profilo internazionale. Vennero tutti i più grandi nomi della limnologia esperti di eutrofizzazione, in primis Volleinweider, ma anche Margalef, – guru della biodiversità (ndr) (cfr. “Atti del Congresso sui bacini lacustri artificiali”; Sassari 4-6 Ottobre 1977). 

Quello di cui serbo il più vivo ricordo è Ramon Margalef, con il quale ho avuto modo di discutere delle problematiche dei bacini artificiali, che sono abbastanza differenti da quelle dei laghi naturali. Margalef infatti, decise di inserire nel suo libro Limnologia, tra gli altri, l’esempio dei bacinio artificiali da noi studiati. 

Ricordo molto bene Margalef perché con lui ho discusso molto. E Margalef fu affascinato dal fatto che ad Alghero, luogo scelto per pranzo ed escursione mid-congressuale, si parlava il catalano medievale. La sua esperienza, vista con gli occhi di oggi, è paragonabile a quella che avrebbe un fiorentino che girando per le vie di Firenze, sentisse parlarvi la lingua di Dante.  Accanto ai grandi nomi internazionali, intervennero al Convegno tutte le autorità preposte alla gestione dei bacini artificiali. Questo in quanto divulgazione e coinvolgimento degli enti gestori erano parte integrante dei Progetti Finalizzati.  Vi parteciparono ESAF, i responsabili dei laboratori di analisi, le alte cariche dell’Ente Flumendosa.

Conclusosi il Convegno, i lavori del gruppo proseguirono anche grazie ad un allargamento del gruppo di ricerca, che arrivò a contare in esso una ventina di persone.

Il Convegno rappresentò una pietra miliare nello sviluppo della limnologia in Sardegna, e nella successiva gestione della risorsa che essi rappresentavano. Essenziale fu proprio il coinvolgimento degli Enti locali. Deputati alla gestione dei bacini artificiali, questi enti dovevano affrontare tutti i problemi relativi alla verifica della qualità, oltreché della quantità, della risorsa acqua. A quei tempi si rivolgevano agli istituti d’igiene e profilassi. L’approccio medico-igienista, tuttavia, non era adatto a risolvere i problemi ambientali e tale inadeguatezza si palesò in maniera chiara nel 1985, quando espose un grave problema nel Lago Mulargia, vicino a Cagliari, con la comparsa di una marea rossa, di grandi dimensioni, ben visibile in trasparenza nel lago. Come era allora consuetudine, ad affrontare questo problema l’Ente Flumendosa, gestore del lago, interpellò l’istituto di igiene e profilassi, senza risultato alcuno. Fu allora che Sergio Vacca, cha era intervenuto al Convegno di Sassari, decise di portare un campione da noi, a Sassari. Sergio Vacca mi dava del lei, mi chiamava professore, anche se nell’85 ero solamente professore associato. 

Messo il campione al microscopio così, a fresco, senza alcun trattamento preliminare di fissazione, riconobbi subito l’alga responsabile di quanto stava accadendo: Oscillatoria rubescens (oggi denominata Planktothrix rubescens).

Che cosa significava la sua comparsa? Significava problemi seri; sapevo bene che quest’alga era comparsa nel Lago Maggiore durante la transizione dall’oligotrofia alla mesotrofia. Ma sapevo anche che nei laghi sardi, essa compariva durante la transizione verso l’eutrofia. Avevo già trovato quest’alga in alcuni invasi sardi, ma solo in quantità modeste. Nel campione che Sergio Vacca mi aveva consegnato vi era una densità spaventosa, dell’ordine di 3 milioni di tricomi per litro… Dunque era in corso un processo di eutrofizzazione del lago. Questo, tuttavia, non era l’unico problema: Oscillatoria rubescens era nota anche per la sua capacità di produrre tossine. Dunque, non era possibile mandare in rete l’acqua senza una precisa e puntuale verifica di quanto stava accadendo.

Rientrato in sede, Sergio Vacca riferì al commissario dell’Ente Flumendosa, De Muro, il quale decise di indire una riunione con tutti i consulenti alla quale sarei stato inviato anch’io. Intervennero i vari consulenti e ad un certo punto De Muro mi chiamò in causa in quanto la mia interpretazione del fenomeno era molto differente da quanto essi avevano esposto fino a quel momento. Dichiarai che nulla di quanto esposto fino a quel momento serviva a spiegare quel che stava accadendo, vale a dire l’avvio di un processo di eutrofizzazione del lago. Spiegai brevemente il significato di questo termine e feci presente il pericolo che si sviluppassero tossine algali, specificando come io non avessi la competenza su temi tossicologici. Il Commissario, non del tutto convinto della veridicità delle mie parole, il giorno dopo telefonò all’Istituto Superiore di Sanità per cui venni invitato il giorno successivo ad una riunione alla quale avrebbe preso parte la professoressa Virginia Volterra.

Con la Volterra, che non conoscevo, ci fu intesa immediata: lei non conosceva il problema Oscillatoria rubescens ma conosceva problemi similari. Si documentò prontamente sull’argomento e confermò la gravità della situazione, per la quale era necessario avviare indagini limnologiche avanzate, con un incarico formale a fronte di un cospicuo finanziamento. De Muro, tuttavia, esitò: dovendo investire danaro dei contribuenti desiderava avere la certezza che il problema fosse affrontato al massimo livello di professionalità. Così mi chiese di indicargli chi a livello internazionale avesse la competenza specifica sui laghi artificiali. Feci due nomi di studiosi, il tedesco Bernhardt e lo statunitense Reklow.

Il primo aveva contribuito al volume edito da Vollenweider nel 1976 con un capitolo specifico sui laghi artificiali.  Il secondo si era occupato dello sviluppo di modelli matematici a livello statistico per i bacini artificiali. Reklow lavorava su un piano statistico molto avanzato che poteva essere di grande utilità per la catalogazione in senso trofico dei laghi sardi.

Il mese successivo a questi due incontri venni convocato ad una riunione a Cagliari alla presenza di entrambi questi studiosi. Con essi erano presenti anche tutti coloro i quali avevano preso parte alla prima riunione.

Fui chiamato a presentare il problema e a dare la mia visione delle cose. Visione che fu avvallata completamente da Reklow, il quale dichiarò che la sua presenza non era necessaria in quanto avevamo già la competenza limnologica della quale avevamo bisogno. In seguito si sviluppò un rapporto di fiducia reciproca e di amicizia con entrambi.  La competenza di Bernhardt fu fondamentale per definire le metodologie di trattamento dell’acqua del Lago Mulargia per la potabilizzazione, perché, oltre ad essere un limnologo era anche un tecnologo della depurazione e della potabilizzazione delle acque. Il problema era infatti anche quello di organizzare sistemi di potabilizzazione che eliminassero sia le alghe sia le tossine. Avviammo un progetto d’indagine limnologica su tutto il bacino idrografico del lago, con la valutazione dei carichi diretti e indiretti, sperimentali, in collaborazione con l’Istituto di Pallanza”.

Qual è il suo personale ricordo di Livia Tonolli?

“La Tonolli era sempre con noi per qualunque cosa, lei è sempre stata l’angelo custode delle nostre vicende, massimamente disponibile in ogni momento. A tale proposito ti racconto un episodio significativo di quanto sopra affermato. Quando ero andato a Pallanza non avevo ancora avuto la titolarità della borsa di studio. Dunque, ero lì a mie spese, la borsa di studio mi venne corrisposta sei mesi dopo il mio arrivo. 

A Pallanza la Tonolli mi chiese come fossi arrivato a Pallanza. Le risposi che avevo viaggiato in nave. E allora lei mi chiese chi avesse provveduto alla copertura finanziaria del mio viaggio e del mio soggiorno. Io le risposi in tutta sincerità che avevo dovuto utilizzare i miei risparmi personali. Due giorni dopo la Signora mi convocò nel suo studio e mi annunciò che sarei dovuto andare in banca a ritirare la mia retribuzione. Questo in quanto l’Istituto era solito fare questo per gli studiosi meritevoli. Credo che la fiducia e la stima della Signora nei miei confronti fossero indice dell’importanza che ella attribuiva alle ricerche che andava promuovendo attraverso di me in Sardegna. E credo anche che le piacesse la mia inclinazione alla franchezza e ad un comportamento schietto in ogni occasione.  

La Tonolli era sempre dietro ogni cosa, quindi la limnologia in Sardegna è la limnologia di Livia Tonolli. Ovviamente, a livello locale, Corrias, Valsecchi, Dolcher facevano da supporto, ma era lei a dirigere. E quando vi furono momenti di tensione, in Istituto, anche in quanto diventava complicato portare avanti la limnologia in un istituto deputato agli studi di botanica fu lei, con una semplice telefonata, a risolvere i problemi sottolineando come il mio gruppo dovesse poter godere della libertà di movimento necessaria alla buona riuscita del lavoro di ricerca. Perché la Tonolli era capace di sottolineare l’importanza del grande disegno che aveva in mente quando aveva promosso la creazione di un centro di ricerca limnologica in Sardegna.

Nel contempo, Passino (direttore del CNR IRSA) non rimase a guardare. Era in progetto la costruzione di una nuova diga sull’Omodeo, la cosiddetta diga cantoniera, e spostando la precedente di tre km a valle, implementare l’invaso da 150 milioni di metri cubi ad 800 milioni di metri cubi. Occorreva realizzare indagini preliminari e queste indagini furono commissionate, a Roberto Passino, cosa che contrariò parecchio Livia Tonolli.

Così, Roberto Passino, Direttore dell’IRSA, incaricò delle indagini Roberto Marchetti, il quale portò a compimento un’indagine sui carichi sperimentali che portò a risultati poco molto diversi da quelli ipotizzabili. Questo forse in quanto non avevano, all’IRSA il know-how di Pallanza sulla valutazione dei carichi sperimentali. In base alla modellistica con le concentrazioni di fosforo misurate in lago il carico doveva essere dell’ordine di 130 tonnellate/anno mentre IRSA stimò un valore molto inferiore, pari a 34 tonnellate di fosforo/anno. Con un carico di quel tipo il lago avrebbe dovuto essere mesotrofico o persino oligotrofico. La valutazione fatta da IRSA aveva implicazioni pesanti per la Cassa per Mezzogiorno. Con i risultati dello studio, infatti, non si poteva neanche ipotizzare la torre di presa differenziale per scegliere gli strati migliori. Dunque il risultato determinò un grave danno. Noi, comunque, non contestammo questi risultati. Fatta la diga, consegnati i risultati alla cassa per il mezzogiorno, il testimone passava all’ente acque Sardegna, deputato alla gestione il lago. E questa gestione prevedeva la scelta dello strato dal quale prelevare l’acqua e, non essendo stata realizzata una torre di presa questo non era possibile. Successivamente, per questioni di questo tipo ETFAL, Ente gestore delle acque in Sardegna, oggi Abbanoa, ha successivamente scelto di fare riferimento a me. Così, nel caso del Lago Liscia, ad esempio, dove esisteva una torre di presa per il prelievo delle acque ad uso irriguo, ho fatto costruire una proboscide che consentisse di prelevare l’acqua esattamente nello strato migliore, con acque non anossiche e con pochissime alghe. E così questa strategia è stata estesa a tutta la Sardegna. Quindi il Lago Omodeo rimane l’unico caso in cui non è stato possibile adottare la strategia del prelievo differenziale attraverso bocche di presa. Tutto a causa di questo studio. Nonostante ciò, negli anni, ho avuto modo, per volere della Tonolli, di collaborare con Roberto Marchetti, nel frattempo divenuto professore di Ecologia all’Università di Milano. Infatti, su mio suggerimento Marchetti entrò a far parte del gruppo di lavoro per il contenimento dell’eutrofizzazione dei bacini della Sardegna commissionato dalla Regione Sardegna. Marchetti è intervenuto alle riunioni solo due volte, per il resto del tempo ritenendo di dover avvallare le azioni che il mio gruppo indicava, sulla base dei dati e del know-how in nostro possesso. La Tonolli aveva spiegato a Marchetti che sul caso Sardegna si stava delineando un disegno progettuale di grande portata, perché la Sardegna non era luogo incontaminato con acque sorgive, ma al contrario, tutti i suoi laghi, forse con la sola eccezione del Flumendosa, avevano problemi gravi. 

Marchetti aveva un’altissima opinione della Tonolli: mentre la Tonolli era autorevole, Passino era autoritario. 

“Un altro caso d’indagine è rappresentato dal Lago Bidighinzu, la cui acqua ancor oggi è destinata all’uso potabile della città di Sassari. Poiché si verificavano periodi di anossia con sviluppo di solfuro d’idrogeno, maleodorante, in questo lago era stato inserito un sistema di insufflazione d’aria sul fondo. Poiché il problema persisteva, venimmo contattati dall’ESAF, ente preposto alla gestione della acque in Sardegna.

Noi avevamo studiato questo lago e sapevamo che era ipertrofico. Giunti sul lago, verificammo la presenza di questo sistema di insufflazione di aria sul fondo, con un enorme compressore e dei tubi che attraversano il lago.

Durante la nostra survey avevamo visto l’impianto in funzione e avevamo rinvenuto alghe a tutte le profondità. Tuttavia, avevamo attribuito questa ubiquità al fatto che il lago era esposto ai venti, ed in particolare, al maestrale. Non potevamo immaginare che il danno derivasse dal fatto che, attraverso l’intervento di insufflazione la colonna d’acqua veniva resa omogenea e con essa le alghe rese ubiquitarie. Con il loro intervento non solo non veniva eliminata la causa della produzione di solfuro d’idrogeno, in quanto per farlo sarebbe stato opportuno un intervento di strippaggio (In chimica, lo strippaggio, o stripping, consiste nel trasferimento di un gas disciolto in un liquido dalla fase liquida a quella gassosa), bensì veniva diffusa la produzione di alghe su tutta la colonna d’acqua.

Io dunque proposi di chiudere l’impianto e di mettere in funzione la torre di presa esistente che permetteva di prelevare l’acqua con un differenziamento di due metri.

Eravamo alla fine della stagione e quindi i risultati si videro solo con il nuovo ciclo idrologico, quando, con la stratificazione termica di volta in volta potevamo scegliere le profondità di emunzione dell’acqua sulla base dei risultati delle nostre analisi, effettuate a cadenza settimanale.

Cosi, mentre prima già da maggio iniziavano i problemi, con il nuovo sistema si arrivava a condizioni di omeotermia calda a fine agosto. In previsione dell’arrivo di questa fase, avevo già consigliato l’avvio di un sistema di micro-setacciatura delle alghe e di strippaggio. La micro-setacciatura è stata avviata per tempo, attraverso la messa in funzione di grandissimi tamburi che consentissero l’eliminazione massiccia delle alghe. Purtroppo il sistema di strippaggio venne realizzato in ritardo. Per evitare lo sviluppo massiccio di Microcystis fu anche inserito un sistema a carboni attivi. Per rimuovere le alghe occorreva utilizzare tecniche “ad hoc” perché alcune alghe flocculavano altre flottavano e dunque i trattamenti dovevano essere specifici a seconda delle alghe stesse. Per evitare il problema della crescita di tossine, le alghe dovevano comunque essere eliminate.

Questo problema di sviluppo di tossine non si è limitato ai bacini artificiali”. 

Gli studi sulle lagune

“Sempre ispirati dalla Tonolli, ci siamo occupati anche delle lagune. (E chissà se questa sua attenzione nasceva dal fatto che la sua maestra, Rina Monti, si era occupata anche delle lagune durante il periodo di attività in Sardegna in qualità di professoressa di Zoologia presso l’Università di Sassari; ndr). L’occasione fu offerta dall’estensione temporale del progetto finalizzato dedicato alla qualità delle acque e al problema dell’eutrofizzazione. Mentre ci accingevamo ad avviare la survey sulle lagune, fummo allertati di un’enorme moria nello stagno di Santa Giusta (CA). Erano gli anni 1993-1995, non ricordo esattamente. Allora non esisteva una gestione centralizzata delle lagune. La gestione delle lagune era affidata a cooperative di pescatori che le sfruttavano per la pesca. Fu allora che venni chiamato dall’assessore ambiente, Giampiero Corda, gallurese come De Muro. 

Noi avevamo già intrapreso lo studio delle lagune nell’ambito del PF Ambiente e dunque avevamo dei dati chimici e trofici delle stesse. Sulla base di questi dati sapevamo che alla laguna arrivano le deiezioni di Oristano, di Santa Giusta e di altri comuni rivieraschi. Nel caso delle lagune sarde era anche fondamentale lo studio delle relazioni idrologiche con il mare, una situazione ben diversa da quella delle shallow water affrontato da Vollenweider. Dunque un settore nuovo per noi, quello dell’ecologia lagunare. Per gestire il problema è stato lanciato un bando a fronte di un progetto per il recupero della qualità delle acque della laguna di santa Giusta. Il lavoro è stato commissionato a Bernhardt il quale ha applicato la metodologia OCDE. Tuttavia, il problema non è stato risolto e quindi sono stato chiamato in causa direttamente dall’assessorato all’ambiente per gestire il problema delle lagune della Sardegna. Così per circa 15 anni sono stato il gestore degli stagni della Sardegna perché per ogni piccolo problema venivo consultato. Usavamo la strategia di aprire il collegamento con il mare in modo da evitare le morie. Infatti, i pesci migravano verso il mare quando le acque dello stagno si deterioravano e ritornavano agli stagni per riprodursi quando le condizioni miglioravano. Visto che i nostri suggerimenti davano risultati positivi venivamo chiamati costantemente anche per dare pareri su qualunque tipo di intervento che direttamente o indirettamente poteva influenzare le lagune.

Oggi sono impegnato in un progetto di valorizzazione delle acque montane. L’idea è quella di restituire alle popolazioni a monte il bene acqua che viene sottratto per l’utilizzo a valle. Non è accettabile che l’acqua venga utilizzata solamente a valle.  L’acqua deve essere utilizzata per il benessere di tutte le popolazioni e non può accadere che il bacino a monte oggi pieno dopo tre mesi risulti vuoto. Il bene acqua deve essere inserito nel paesaggio, inteso come “grande paesaggio”, in un contesto di grande economia. Questa mia idea non trova consenso da parte di alcuni politici locali e neppure all’Ente Acque Sardegna, poiché entrambi ritengono di poter gestire i laghi a loro piacimento, da padroni.

Padroni dell’acqua sono, a mio avviso, i territori e le popolazioni locali, quindi anche le popolazioni a monte degli attuali invasi. Stiamo vagliando, con architetti e urbanisti, diverse opzioni. Un esempio è quello del Lago Gusana: di giorno, le sue acque vengono turbinate verso il Cucchinadorza per produrre energia elettrica, mentre di notte, quando l’energia non viene utilizzata, le pompe funzionano a rovescio ripompando l’acqua in alto, verso il Gusana. Tuttavia, questa dinamica genera problemi limnologici e i reflui non possono essere convogliati nel Cucchinadorza. Dunque stiamo discutendo la strategia da adottare.

Un altro problema è quello delle variazioni di livello, che non possono essere lasciate all’arbitrio di Ente Acque Sardegna o di ENEL. Queste variazioni devono essere concordate con le popolazioni locali che hanno attività economiche, turistiche, di ricreazione, di balneazione. Non sono accettabili, ad esempio, variazioni di livello di trenta metri. Ora noi stiamo organizzando un piano che tenga nel debito conto le realtà territoriali irrigue a monte, verso le quali non si può pompare l’acqua perché il processo è antieconomico. Stiamo pensando di avviare una strategia di laghi collinari, rinvasando le acque nei diversi territori di provenienza. Questi territori stanno diventando target per il turismo sostenibile, e in essi arrivano esploratori amanti della natura da ogni parte del Mondo. 

Quand’ero bambino in questi territori montani esistevano grandi vasche d’acqua per abbeverare il bestiame. Laddove esistevano queste vasche si potrebbe pensare alla realizzazione di laghetti collinari che diventino poli di attrazione urbana. Il nostro progetto permetterebbe di riqualificare i territori montani utilizzando i fondi del PNRR”. 

Un progetto che ben si sposa con il Combinato disposto sull’acqua (ndr).

Personaggi

Livia Pirocchi Tonolli

Allieva di Rina Monti e specializzata in plancton collaborò con l'Istituto di Idrobiologia diventandone poi direttrice. Fu membro di numerose commissioni per lo studio dei laghi e l'ecologia.
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Marina Marcella Manca

Esperta di ecologia e dinamica di popolazione di organismi zooplanctonici d’acqua dolce, responsabile delle ricerche sullo zooplancton del Lago Maggiore, ricercatrice e poi direttrice dell’Istituto per lo Studio degli Ecosistemi (CNR-ISE) dal 2014 al 2016.
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